Omelia del Parroco nell'Azione Liturgica per la Passione e Morte del Signore

  • 30/03/2024
  • Don Gabriele

La lettura della Passione secondo Giovanni, nonché ciò che ho detto nelle riflessioni tenute durate le Viae Crucis di quest’anno e in altri momenti ci conducono senza fatica a capire come nella passione di Gesù tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l’immensamente Puro, con l’anima di Gesù e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo con tutta la sua ingiustizia e le sue crudeltà che lo inquinano viene a contatto con l’immensamente Puro – là Egli, il Puro, si rivela al contempo più forte. In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell’amore infinito. Siccome nell’Uomo Gesù è presente il bene infinito, è ora presente ed efficace nella storia del mondo la forza antagonista di ogni forma di male, il bene è sempre infinitamente più grande di tutta la massa del male, per quanto essa sia terribile.

La realtà del male – questa realtà che c’è per colpa nostra, non può essere però semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Per smaltirla però non è che da un Dio crudele venga richiesto qualche cosa di infinito. E’ proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. San Paolo non dice: “Riconciliatevi con Dio”, ma “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso “beve il calice” di tutto ciò che è terribile e ristabilisce il diritto mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio.

Tutto ciò rappresenta un dono immenso, che nessuno di noi poteva immaginare e che nessuno di noi in definitiva merita.

Ma noi come ci poniamo di fronte a tutto questo? E’ possibile ammirare questa opera di Dio rimanendo solo all’esterno di tutto ciò? Di fronte alla redenzione operata da Gesù, di fronte alla sua croce, al suo morire, a che cosa siamo chiamati? E’ possibile che non ci tocchi nel profondo, nell’intimo, e che perciò cerchiamo in qualche modo di rispondere? Ma come? Generalmente diciamo che dobbiamo imitare il Signore Gesù. La forma più compiuta di imitazione è quella dell’obbedienza, il fare cioè la volontà del Padre. Ma chi di noi può dire di fare sempre, fino in fondo, come Lui se l’aspetta, la volontà del Padre? Per quanto ci impegniamo, rimane sempre in noi un’impressione e più che un’impressione di insufficienza. La nostra obbedienza è sempre nuovamente mancante. Sempre di nuovo la volontà personale si fa avanti.

Il profondo senso dell’insufficienza di ogni obbedienza umana verso la Parola di Dio, l’inadeguatezza nostra di fronte al mistero compiuto della croce, fa tuttavia erompere il desiderio che tale obbedienza si possa realizzare in modo più perfetto, che tale adeguatezza sia infine realizzata, che Dio abbia finalmente una risposta da parte dell’uomo, che ci sia davvero qualcuno che ricambi questo amore nella forma che lui desidera.

Nel Verbo incarnato il desiderio che a Dio sia dato ciò che noi non siamo in grado di dargli e che il dono sia tuttavia dono nostro trova il suo adempimento. Il Verbo stesso, il Figlio, si fa carne; assume un corpo umano. Così è possibile una nuova forma di obbedienza, un’obbedienza che va al di là di ogni adempimento umano dei Comandamenti. Il Figlio diventa Uomo e il suo corpo riporta a Dio l’intera umanità. Solo il Verbo fattosi carne, il cui amore si compie sulla croce, è l’obbedienza perfetta. La sua obbedienza “corporea” è il nuovo sacrificio nel quale coinvolge tutti noi e in cui al contempo tutta la nostra disobbedienza è annullata mediante il suo amore.

Detto ancora in altre parole: la nostra personale moralità non basta per venerare Dio in modo giusto. Ma il Figlio fattosi carne porta con sé tutti noi e dona così ciò che noi da soli non potremmo dare. L’amore “corporeizzato” di Gesù Cristo supera ogni nostra insufficienza. Ma in che modo siamo uniti a Lui? Attraverso il sacramento del Battesimo e dell’Eucaristia la nostra unione con Lui è ontologica: il suo essere entra nel mio e il mio entra nel suo. Sicché non siamo più due ma un corpo solo. Davvero questo mistero è grande: non nel senso di incomprensibile, ma nel senso che è meraviglioso.

Finalmente possiamo rispondere all’amore di Dio. In Cristo ci è possibile, ci è aperta questa strada. Non ci amareggia più lo scarto tra quello che riusciamo a fare e quello di cui Dio è degno, perché essendo in Cristo questo scarto lo colma Lui. Tutto questo ci libera per così dire dall’ansia di prestazione nei confronti del Signore. Così, dimentichi di noi, possiamo fare fluire dentro di noi la sua obbedienza, il suo amore, la sua gioia. La grandezza dell’amore di Cristo si mostra proprio nel fatto che Egli, nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo così che diventiamo veramente il “suo corpo”. Questa è la sua misericordia, che ora gustiamo guardando l’albero della croce da cui pende Colui che è la salvezza del mondo.

(tratto in parte da J. Ratzinger, Gesù di Nazateth, II parte, con l’aggiunta di riflessioni e approfondimenti personali

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